[…] «Anche se, forse, a volte troverai piuttosto sconcertante il modo di esprimersi del mio amico. Otake-san parla di ogni cosa in termini di Go. Tutta la vita, per lui, è un paradigma semplificato di questo gioco.»
«Da come lei lo descrive, signore, penso proprio che mi piacerà.»
«Ne sono sicuro. È un uomo che ha tutto il mio rispetto. Possiede una sorta di… come dire?… di shibumi.»
«Shibumi, signore?» Nicholai conosceva questa parola, ma solo nella sua applicazione ai giardini o all’architettura, dove aveva il significato di bellezza poco appariscente. «In che senso usa questa parola signore?»
«Oh, vagamente. E scorrettamente sospetto. Un goffo tentativo di descrivere una qualità ineffabile. Come sai, shibumi allude a una grande raffinatezza sotto apparenze comuni. È un’affermazione così precisa che non ha bisogno di essere ardita, così acuta che non dev’essere bella, così vera che non deve essere reale. Shibumi è comprensione più che conoscenza. Silenzio eloquente. Nel modo di comportarsi, è modestia senza pruderie. Nell’arte, dove lo spirito di shibumi prende la forma di sabi, è elegante semplicità, articolata brevità. Nella filosofia, dove shibumi emerge come wabi, è una serenità spirituale non passiva; l’essere senza l’angoscia del divenire. E nella personalità di un uomo, è… come dire? Autorità senza dominio? Qualcosa del genere.»
L’immaginazione di Nicholai rimase galvanizzata dal concetto di shibumi. Nessun altro ideale lo aveva mai tanto commosso. «Come si raggiunge questo shibumi, signore?»
«Non lo si raggiunge, lo si… scopre. E solo pochi uomini d’infinita raffinatezza arrivano a scoprirlo. Uomini come il mio amico Otake-san.»
«Vuol dire che bisogna imparare un mucchio di cose per essere shibumi?»
«Vuol dire, caso mai, che bisogna passare attraverso la sapienza e arrivare alla semplicità.»
Da quel momento, l’obiettivo primario di Nicholai fu quello di diventare un uomo di shibumi […]